Professore di storia della lingua italiana all’Università di Salerno, Sergio Lubello è al suo secondo appuntamento con le Bussole Carocci, le apprezzate pubblicazioni scientifiche a vocazione divulgativa. La sua prima Bussola era dedicata al linguaggio burocratico (Lubello 2014a). Considerando i suoi numerosi studi sul linguaggio burocratico-amministrativo, tra cui va pure ricordato, oltre a quello appena citato, un importante contributo a un’opera collettanea di rilievo (Lubello 2014b), l’autore va annoverato tra i massimi specialisti di questo settore. Nel volume in oggetto Lubello ritorna ora, dopo varie esperienze analoghe (tra cui Lubello 2017) e ancora di recente (Lubello 2022), alla lingua del diritto nelle sue tante sfaccettature: dal testo normativo al suo commentario, dalla sentenza alla sua motivazione, dall’arringa in aula alle testimonianze, toccando così praticamente tutta la gamma di testi giuridici.
Il libro, assai denso nella sua concisione, è articolato in cinque capitoli tra storici, analitici e descrittivi, preceduti da una Introduzione e seguiti da un Poscritto; chiude il volume una folta bibliografia che repertoria, fra gli altri, gli studi più recenti sull’argomento trattato.
Nel capitolo 1 («Introito. Lingua e diritto») Lubello insiste sul rapporto inscindibile tra il diritto e le parole: «tutto il diritto è fatto, è intessuto di parole» (9); e il linguaggio è «un elemento costitutivo, fondante del diritto» (10). Non sorprende quindi che l’attenzione dei linguisti per questo linguaggio specialistico abbia conosciuto una notevole spinta negli ultimi decenni. Prendendo come base i lavori di vari specialisti di linguaggio del diritto (Ainis, Bambi, M. A. Cortelazzo, Fiorelli, Grossi, Mortara Garavelli, Ondelli, Rovere), l’autore propone una classificazione dei testi giuridici distinguendo un’articolazione orizzontale (i vari settori e discipline) e un’articolazione verticale (i livelli diversi di specializzazione), evidenziandone così la straordinaria varietà.
Se Gianfranco Folena, nel suo saggio «Volgarizzare e tradurre» (Folena 1991, 3), invertiva, parafrasando il noto passo biblico, l’attribuzione del primato nell’uso del volgare spostandolo dal poeta («in principio fuit poeta») al traduttore («in principio fuit interpres»), Lubello compie un ulteriore passo assegnando tale primazia alla legge e ai suoi cultori («in principio fuit lex», 11). È innegabile che «molti dei più antichi testi volgari pertengono infatti all’ambito giuridico e ai professionisti del diritto (notai, giudici ecc.) spetta un ruolo fondamentale nella scrittura in volgare» (11). Il diritto, quindi, si impone come propulsore di un modo di esprimersi che fosse comprensibile e accessibile a tutti, al volgo. Anche se, occorre sottolinearlo subito, il fatto di poter recepire la narrazione giuridica nella propria lingua, il volgare, non è affatto garante di comprensibilità: non lo era allora e non lo è oggi. Questo primo passo, decisivo per la divulgazione scritta della lingua «bassa» rispetto a quella «alta», il latino, ha dato inizio a quella che Lubello opportunamente chiama «conquista da parte del volgare di territori appartenenti allo spazio di scrittura giuridica in latino» (11).
Già fin dal primo capitolo si nota – e apprezza – una caratteristica costante del libro, ossia l’eloquente esemplificazione mediante termini e locuzioni passati dal linguaggio giuridico a quello comune o d’uso. Prendiamone uno solo: «con beneficio d’inventario, che riguarda la successione: l’accettazione di un’eredità con beneficio d’inventario significa confermare l’accettazione di un’eredità (o respingerla) solo dopo aver effettuato un bilancio accurato dei beni, crediti e debiti lasciati in eredità dal de cuius, con la conseguenza che non si è tenuti al pagamento dei debiti ereditari e dei legati, oltre il valore dei beni pervenuti in eredità; dalla successione l’espressione passa nella lingua d’uso a indicare, in modo figurato, “fare delle riserve, non accettando per buono tutto quanto viene detto o proposto”» (12).
Lubello guarda con occhio critico l’oscurità del linguaggio giuridico in quanto «ostacolo alla partecipazione dei cittadini alla vita democratica» (13), stigmatizzando però anche quella che chiama, rifacendosi a Mortara Garavelli (a sua volta debitrice di Maupassant), «inutile bruttezza» (14). Sul banco d’accusa non c’è soltanto il lessico, notoriamente di difficile accesso, ma anche la costruzione del testo e la sintassi: questo infausto conglomerato insidia seriamente la certezza del diritto, definita come «principio cardine degli ordinamenti moderni» (15). Ma il «giuridichese» ha radici storiche che quasi ne giustificano la natura stessa: «la dimensione giuridica ha avuto fin dall’antichità un’aura speciale, quasi sacra, il che ha anche autorizzato la ricerca di una certa solennità del dettato e una certa distanza dalla lingua comune» (15). In questo mare magnum di testi legislativi «oscuri» ne risalta tuttavia uno, che brilla per limpidezza cristallina: la Costituzione italiana. Non sono mancati e non mancano comunque gli sforzi per rendere i testi giuridici chiari e comprensibili, ovvero per semplificarli. Tali iniziative riguardano però soprattutto il linguaggio burocratico-amministrativo e meno quello giuridico. A proposito del primo, Lubello fornisce una succinta panoramica degli interventi e strumenti concepiti per migliorare l’efficacia e la chiarezza della comunicazione con il pubblico (15–18).
Nel capitolo 2 («Da un secolo all’altro. Testi esemplari dell’italiano giuridico») l’autore analizza a vari livelli il primo testo giuridico redatto in volgare in Italia, il Placito di Capua (il famoso «Sao ko kelle terre…»). I Giuramenti di Strasburgo, precedenti di oltre un secolo, e il Placito sono testi giuridici «scritti in una lingua – il volgare, non più il latino – usata in modo consapevole e in contesti ufficiali» (19). I due testi, il primo dell’842 e il secondo del 960, sono inoltre di capitale importanza perché «segnano ufficialmente la data di nascita del francese e dell’italiano» (ibid.). L’analisi del Placito di Capua offre lo spunto per enunciare due aspetti importanti legati al diritto e al suo lessico: da un lato «l’incontro di due tradizioni giuridiche, il diritto romano e quello longobardo»; dall’altro la presenza di vari «termini di provenienza longobarda, alcuni ancora vivi ma in significati spesso peggiorativi», come sgherro, manigoldo, faida, tregua (22).
L’ingresso del volgare nei testi giuridici del tardo Medioevo, tradizionalmente appannaggio del latino, è stato agevolato dall’attività della categoria di professionisti dei notai. Se «il latino era deputato agli usi alti, scritti, formali e il volgare a quelli informali» (24), ecco che il notaio assumeva un ruolo cruciale di mediatore tra giuristi e popolazione. Spettava a lui la stesura di atti in un latino che assumeva volgarismi nella parte più libera, secondo questa modalità: «il notaio ascoltava i clienti in volgare e redigeva poi in latino l’atto o esponeva ai clienti i termini contenuti in un testo latino» (25). Non dimentichiamo che, fra gli altri, il primo poeta in lingua volgare, Jacopo da Lentini (detto il Notaro), esercitava proprio questa professione.
Fra Trecento e Quattrocento si impongono, in ambito giuridico, le koinè cancelleresche, che prendono a modello il latino classico medievale e giuridico e il toscano. Anche a questo proposito Lubello presenta una serie di esempi di termini della koinè appartenenti al lessico giuridico, quali beneplacito, deliberare, giurisdizione o querela (33). Nel trattare la situazione e l’evoluzione negli Stati preunitari del Cinquecento, l’autore si sofferma in particolare su Piemonte, Valle d’Aosta, Savoia e Toscana (ma anche sul caso specifico del mugnaio friulano Domenico Scandella detto Menocchio, che si fa portavoce dei poveri che non sanno latino).
La panoramica storica prosegue nel Seicento, con la figura di rilievo di Giovan Battista De Luca, autore del «Dottor volgare», opera dottrinale scritta in volgare, nel Settecento (Beccaria, Verri) e nell’Ottocento, dal Codice civile napoleonico (che ha introdotto importanti elementi di modernità nella lingua giuridica, esemplificati da Lubello) allo Statuto albertino, che diventerà la Costituzione del 1861, alla Costituzione della Repubblica romana. Un’importante iniziativa ottocentesca è costituita dal Codice penale del 1889, che unificò tutta la legislazione penale e rimase in vigore fino all’emanazione del nuovo Codice penale del 1930.
La parte storica si chiude con un sottocapitolo dedicato alla Costituzione italiana (2.9 «Il volto gentile della legge: la Costituzione»), la quale «brilla notoriamente per la sua chiarezza, risultando un testo normativo esemplare di agevole lettura» (47). Il confronto con la maggior parte delle leggi induce alla conclusione che «[n]on esiste un testo legislativo italiano che possa vantare un livello così alto di chiarezza e accessibilità» (48). Si può forse aggiungere che la Costituzione è fatta così come dev’essere fatta una costituzione: enuncia principi generali a diversi livelli che vanno poi concretizzati nelle leggi. In quest’ottica è più facile che il testo, che non entra in dettagli specifici ai vari settori da normare, risulti più chiaro e leggibile. Inoltre, diversamente dalle leggi, una costituzione non è appesantita dalla rete di rimandi intertestuali (e intratestuali) che può intaccare ulteriormente la leggibilità1.
Nel capitolo 3 («La lingua: tratti caratterizzanti») l’autore ribadisce l’idea dell’articolazione del complesso e variegato linguaggio giuridico sia in orizzontale (molti settori e sottosettori del diritto) sia in verticale (dal circuito specialistico a quello più divulgativo). Tenuto conto dei cambiamenti in atto nel linguaggio giuridico a diversi livelli, in particolare con la penetrazione dell’inglese nel lessico e con la sua assunzione come lingua veicolare tra giuristi, Lubello conclude lapidariamente che «ogni parola può, in teoria, diventare giuridica» (50).
Soffermandosi su alcuni aspetti dello scritto e del parlato, Lubello evidenzia alcuni usi «arcaici, letterari, in disuso o in regresso nello scritto corrente» (ibid.), tra cui la i- prostetica (iscritto), la d eufonica anche tra vocali diverse (ed altro) e il circonflesso nel plurale di nomi e aggettivi in -io (dominî).
Passando agli aspetti morfosintattici, l’autore constata che i testi giuridici «si caratterizzano generalmente per la loro concisione (capacità di sintesi), per il carattere impersonale e anche per una certa distanziazione dall’italiano dell’uso comune» (53). Questi aspetti sono dovuti a una serie di tratti morfosintattici tipici: la deagentificazione, l’assenza di forme aggettivali, pronominali e verbali di prima e seconda persona, così come di deittici temporali e locativi e di altri elementi appartenenti alla sfera emotiva, la condensazione sintattica (dove «[l]a fitta ipotassi contribuisce ad aumentare il carattere oscuro e ampolloso tipico di molti testi giuridici, per cui è consigliabile spezzare il periodo in enunciati distinti quando la struttura eccede ogni limite ragionevole di comprensibilità», 54), la tendenza alla nominalizzazione, l’omissione dell’articolo (che contribuisce a marcare il carattere tecnico-specialistico del testo), l’enclisi pronominale (trattasi), la doppia negazione o negazione multipla (non si può non ammettere che), l’ordine delle parole (tra cui l’anteposizione dell’aggettivo e del participio passato), il ricorso all’imperfetto narrativo (nelle sentenze e nella descrizione di un fatto o di una vicenda), il presente storico e il presente atemporale (tipico del testo normativo), il presente performativo (tipico nelle parti prescrittive delle leggi e dei dispositivi delle sentenze), il futuro iussivo (l’imputato pagherà), le frasi ridotte participiali (si considera celebrato il matrimonio…), il participio presente con valore verbale (i diritti spettanti al condannato), la sovraestensione dell’infinito in frasi completive (l’avvocato chiede applicarsi…, più frequente in testi amministrativi e giudiziari, meno nei testi legislativi, e inaccettabile in contesti non giuridici), la maggiore presenza del congiuntivo nelle subordinate rispetto allo scritto di media formalità (è da verificare se sia possibile…) e la tendenza all’uso di verbi saturi per evitare erronee reggenze verbali non conformi allo standard (adire alle vie legali).
A proposito del femminile di genere, affermato che «la parità dei diritti passa per il riconoscimento della differenza di genere, anche attraverso gli usi linguistici» (58), Lubello evidenzia la problematicità dell’uso del femminile considerato «politicamente scorretto, in quanto talvolta ha una connotazione ironica o scherzosa, e inoltre pone anche alcune questioni giuridiche»: la certezza del diritto sarebbe compromessa se si usassero espressioni linguistiche astratte che da un lato creerebbero problemi di accordo grammaticale e dall’altro potrebbero far sì che accanto ai maschili veri e propri sopravviva qualche maschile generico (58–59).
Spostandosi sul piano del lessico, l’autore sottolinea il fatto che «[q]uello del diritto è il linguaggio specialistico che più attinge alla lingua comune» (59). Il rapporto fra i due linguaggi è messo in evidenza attraverso un inquadramento storico del lessico giuridico, analizzandone alcuni aspetti a livello storico-linguistico, sempre con un ricco apporto di esempi: l’opacità, le retrodatazioni, gli slittamenti semantici, gli slittamenti con peggioramento semantico, gli archeologismi, le lessicalizzazioni, i cambiamenti semantici e la polisemia. Lubello mette quindi a fuoco le varie componenti del lessico giuridico: i tecnicismi specifici, i tecnicismi collaterali (o pseudotecnicismi) e le ridefinizioni, senza dimenticare il fenomeno della detecnificazione (un termine specialistico che passa alla lingua comune) (63–64). Un cenno è fatto pure ai forestierismi giuridici, attinti in primis dal latino e, recentemente, dall’inglese, nonché alla formazione delle parole e alla neologia (65–67).
Un altro capitolo interessante riguarda la dimensione testuale (68 segg.). Il testo normativo, fra le tipologie giuridiche, è quello più rigido nella sua struttura, sia per l’articolazione fissa sia per l’organizzazione canonica del discorso: «Lo stile cosiddetto “commatico”, legato evidentemente alla condensazione sintattica, è tipicamente giuridico: la frase (unità sintattica) coincide con il capoverso (unità testuale) e quest’ultimo coincide con un tema ben preciso, nettamente distinguibile dal precedente e dal successivo; la logica rigorosa dei concetti esposti impone una precisa corrispondenza tra successione dei capoversi e successione del ragionamento» (70). Il testo giuridico è fortemente coeso e quindi assumono un ruolo fondamentale i frequenti e insistenti elementi deittici, anaforici e cataforici. D’altra parte anche l’argomentazione è fortemente coesa e quindi abbondano i connettivi, deputati a rendere esplicito ogni passaggio logico (71). Anche la punteggiatura riveste un’importanza cruciale nell’organizzazione del testo normativo, come ben mostra un esempio (problematico) tratto dalla legislazione italiana (72).
Lubello introduce il sottocapitolo dedicato alla retorica forense (72–75) con una premessa riguardante i testi giuridici in generale, che ci piace riportare in quanto illustra bene, riassumendoli, i tratti salienti di questa tipologia testuale: «Molti testi giuridici sono redatti in uno stile molto sostenuto, a volte antiquato, fin troppo colto con un formulario fisso e cristallizzato, dalla forte patina arcaizzante, in cui si ravvisano anche formule obsolete, burocratismi ufficiali in disuso oltre che lessemi scomparsi, abbondanti sigle, acronimi ed eponimi, strutture morfosintattiche di uso scritto letterario o arcaico, una congerie di tratti che nel complesso assicurano una buona patina di ufficialità» (72–73). Queste caratteristiche, che dovrebbero essere estranee ai testi normativi, sono invece fondamentali nei discorsi di difesa o d’accusa e nell’arringa, che fanno uso massiccio di orpelli retorici e ricorrono ampiamente al discorso figurato. La lingua in tribunale, afferma l’autore, va però considerata nella sua dimensione orale: «analizzare tali arringhe sulla base di testi scritti senza aver assistito alla performance orale è come guardare una fotografia sbiadita […], come leggere un testo in astratto, sottraendolo alla complessità semiotica a cui appartiene» (74).
Nel capitolo 4 («Testi e contesti del diritto») Lubello, fondandosi sulle classificazioni delle tipologie testuali proposte da diversi autori (Werlich nel 1976, Sabatini nel 1999, Mortara Garavelli nel 2001 e Dell’Anna nel 2017), suggerisce dapprima a sua volta una classificazione dei testi giuridici che prende in considerazione vari parametri: il tipo testuale, il valore pragmatico del testo (lo scopo del progetto testuale), il destinatario (e in generale l’ambito comunicativo) e il carattere puro o misto del testo (il primo attribuibile ai soli testi normativi, il secondo agli altri testi giuridici) (77–79). In seguito dedica un sottocapitolo (4.2 «Scrivere la legge», 80–83) a un modello di buona scrittura della legge, la Costituzione italiana (già trattata nel cap. 2), a cui affianca, come esempi pure riusciti in quest’ottica, i Codici civile e penale italiani. La Costituzione si distingue per alcuni aspetti eccezionali, veri e propri pregi, rispetto al corpus delle leggi italiane («mediamente difficili e incomprensibili», 80): per tre quarti i lemmi appartengono al vocabolario di base dell’italiano, mentre il numero di parole ne copre addirittura il 92 per cento (da notare la presenza di un solo latinismo, referendum, e di un solo neologismo, proponibilità); i periodi sono di preferenza brevi, prevale la paratassi, la frase principale precede le subordinate (comunque poche), sono assenti incisi e rimandi, è usato l’indicativo presente con valore prescrittivo, sono rari i congiuntivi e i gerundi. Ma la chiarezza e la comprensibilità della Costituzione italiana sono garantite anche dalla costruzione retorica del testo, dalla distribuzione degli argomenti e dall’uso sapiente della punteggiatura, nonché dalla «forte coesione scandita dalle molte ripetizioni [che] assicura una sensazione di riconoscibilità, una sorta di marchio d’identità che certifica l’appartenenza della norma a quel documento» (82). Partendo dall’elogio della legge fondamentale dello Stato, riconosciuta come eccezione, Lubello formula una raccomandazione destinata a chi redige testi normativi: «Le leggi dovrebbero essere scritte in modo non ambiguo e comprensibile a tutti», ma dà subito spazio al disincanto: «ma il più delle volte, come del resto succede quasi sistematicamente per i testi amministrativi, esse sono scritte dal punto di vista del mittente/scrivente, non del destinatario.» (83).
Nel seguito di questo capitolo l’autore volge lo sguardo a ulteriori tipologie di testi giuridici: quelli di commento (4.3 «Commentare e spiegare il diritto») e applicativi, in particolare la sentenza e il contratto (4.4 «Applicare le leggi»), la lingua scritta e parlata in tribunale (4.5 «A onor del vero: il processo tra scrittura e oralità»), i testi giuridici divulgati dai media (4.6 «Divulgazione e comunicazione: diritto e media»), i testi giuridici prodotti dai non addetti ai lavori, dalle testimonianze processuali al testamento olografo alla dichiarazione ufficiale (4.7 «Il diritto dal basso») e i testi giuridici fuoriusciti dalla penna degli scrittori, da Manzoni a Pirandello, con un’attenzione particolare alla novella dell’autore agrigentino intitolata «La patente» (4.8 «Testi estravaganti: diritto e letteratura»).
Il quinto e ultimo capitolo («Epilogo. L’italiano giuridico fuori d’Italia») si sofferma sull’uso amministrativo, giuridico e diplomatico fuori della Repubblica Italiana. Dopo alcune considerazioni storiche, in cui accenna al ruolo delle repubbliche marinare, in particolare di Venezia e del suo dominio politico, l’autore analizza dapprima l’italiano giuridico nell’Unione europea, dove vige il principio del multilinguismo integrale garantito dalla traduzione (in cui l’italiano è lingua d’arrivo), con tutte le implicazioni problematiche dovute alla compresenza di 24 versioni linguistiche della legge e di diverse tradizioni giuridiche. Da notare, ad esempio, che «nella struttura della sintassi dei testi europei si assiste a un processo di semplificazione, con la preferenza per un registro meno formale» rispetto ai testi d’Italia, mentre si constata «nel corpus nazionale la presenza di lessico e collocazioni giuridiche di registro più formale rispetto agli altri due corpora di legislazione europea e svizzero-europea» (112). Il linguaggio comunitario italiano dà peraltro prova di innovazione lessicale rispetto al linguaggio giuridico d’Italia. Lubello accenna infine al ruolo dell’Osservatorio dell’italiano istituzionale fuori d’Italia (OIIFI), istituito dalla REI (la Rete di eccellenza dell’italiano istituzionale), che monitora l’italiano istituzionale nelle regioni in cui l’italiano è lingua ufficiale e serve da piattaforma di scambio di esperienze e da punto di riferimento o interlocutore per dubbi, difficoltà, soluzioni terminologiche o linguistiche.
Il sottocapitolo 5.3 è riservato alla più importante realtà istituzionale dell’italiano fuori d’Italia: la Svizzera. Lubello descrive con precisione la situazione linguistico-istituzionale del nostro Paese, insistendo fra l’altro sull’autenticità di tutte e tre le versioni linguistiche ufficiali dei testi normativi svizzeri. Il cosiddetto italiano federale, di cui sulla scorta di una recente monografia (Egger 2019) l’autore riconosce le specificità rispetto ad altre varietà di linguaggi improntati alla traduzione, ha anch’esso, come quello unionale, le sue peculiarità lessicali.
Chiude il libro un «Poscritto. Lingua, diritto e istruzione», dove l’autore spezza una lancia in favore dell’istruzione e della ricerca, della scuola e dell’università, della formazione permanente degli adulti, auspicando un maggiore sostegno statale.
Ricco d’informazioni, analisi linguistiche, riflessioni sul linguaggio giuridico italiano nelle sue tante sfaccettature, il libro di Sergio Lubello non assolve soltanto allo scopo divulgativo di cui si è detto in entrata, ma offre spunti suggestivi per una considerazione differenziata e a trecentosessanta gradi di questo linguaggio speciale da parte sia dei profani, che potranno usufruire di un’ottima infarinatura, sia degli addetti ai lavori della lingua e del diritto, che vi troveranno analisi e approfondimenti di cui potersi avvalere nei rispettivi campi d’attività.
Giovanni Bruno, Cancelleria federale, Servizi linguistici centrali, Divisione italiana, Bellinzona, e-mail: giovanni.bruno@bk.admin.ch
Riferimenti bibliografici ^
- Antonelli, Giuseppe et al. (2014): Storia dell’italiano scritto. III. Italiano dell’uso, Roma.
- Egger, Jean-Luc (2019): A norma di (chi) legge. Peculiarità dell’italiano federale, Milano.
- Ferrari, Angela et al. (2022): La Costituzione italiana e la Costituzione svizzera in lingua italiana. Aspetti linguistici e testuali, Alessandria.
- Folena, Gianfranco (1991): Volgarizzare e tradurre, Torino.
- Lubello, Sergio (2014a): Il linguaggio burocratico, Roma.
- Lubello, Sergio (2014b): Cancelleria e burocrazia, in Antonelli et al. (2014), pagg. 225–259.
- Lubello, Sergio (2017): La lingua del diritto e dell’amministrazione, Bologna.
- Lubello, Sergio (2022): Il diritto da vicino. Intorno ad alcune parole giuridiche dell’italiano, Alessandria.
- 1 Sull’italiano costituzionale, d’Italia e di Svizzera, si veda ora Ferrari et al. 2022.