Recensione di: Natalino Irti, Riconoscersi nella parola. Saggio giuridico, Il Mulino, Bologna 2020, 267 pagg.

  • Autore: Daria Evangelista
  • Categoria di articoli: Recensioni
  • DOI: 10.38023/fd8d9c1d-f4a8-4e22-9a1f-7fdeaa855d4f
  • Citazione: Daria Evangelista, Recensione di: Natalino Irti, Riconoscersi nella parola. Saggio giuridico, Il Mulino, Bologna 2020, 267 pagg., in: LeGes 33 (2022) 1
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Perché il linguaggio del diritto, considerato in particolare nella sua dimensione nazionale, è altamente codificato e formalizzato? La domanda funge da filo conduttore del libro di Natalino Irti, già ordinario di diritto civile alla Sapienza e accademico dei Lincei oltre che autore di numerose opere di dottrina e filosofia del diritto, fra cui il fortunato Letà della decodificazione (1979). Incontriamo una risposta iniziale nei primi capitoli: «la norma ha bisogno della forma, poiché per mezzo di essa si impossessa delle cose (anche delle umane volontà) e le assume dentro di sé, le misura e le regola» (11). Per Irti, la forma giuridica, intesa in generale come il linguaggio specializzato del diritto, o più nello specifico come la fattispecie giuridica, chiude il divenire nei propri schemi, e come tale è uno strumento-istituto per costruire il mondo: utilizzando le forme del diritto siamo in grado non solo di ordinare e classificare il nostro agire, ma anche di prevederne e calcolarne lo svolgimento. Nel ragionamento di Irti, norma e forma linguistica sono dunque entità inscindibili, perché la prima necessita della seconda per adempiere le proprie funzioni.

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Ma l’importanza della forma giuridica per Irti non sta solamente nel fatto che attraverso di essa è possibile nominare le cose, classificarle e regolarle. Secondo l’autore, la forma, in definitiva, permette anche di comprendere la realtà, perché «le azioni degli uomini sono giuridicamente intellegibili entro un dato sistema di norme» (16). Si tratta di un formalismo che ha origine in se stesso, e si può pertanto affermare che in questa prospettiva il diritto non rispecchia la realtà esterna, ma costruisce e organizza la propria realtà (53). Da qui la necessità di concetti come quello di «formalismo assoluto», ovvero la totale artificialità della forma, artificialità che però richiede adeguatezza storica a esigenze e bisogni di una data comunità, e di «linguisticità assoluta»: il diritto per essere funzionale non può che concretizzarsi attraverso la lingua; in questo modo gli utenti condividono lo stesso codice, vi si riconoscono e possono abitarvi dialogicamente.

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Al cuore dell’impianto teorico esposto nel volume sta dunque una lingua giuridica molto formalizzata, in cui è imperante il principio di legalità linguistica (già teorizzato in precedenza da Devoto 1962, 5): la lingua è qui concepita come un sistema rigoroso, in cui non c’è spazio per le «arbitrarie sovversioni e le umorali rivolte degli individui» (21). Vige quindi il constans verbum, per cui attribuire alla parola giuridica un significato diverso da quello ordinario, da quello d’uso nel settore, significherebbe rompere «l’affidamento semantico», alterare i contenuti della comunicazione, «sovvertire la forma stessa della convivenza» (22). In questo assetto, l’autore condivide la nozione di «tecnica normativa» di stampo kelseniano: il diritto è una tecnica sociale, un meccanismo direttivo della volontà umana, che non può né obbligare né vietare «senza descrivere situazioni, cose, eventi che assumono una rilevanza giuridica». Il termine «meccanismo», usato già da Max Weber (2007) negli anni ’20 del 1900, ancora prima di Hans Kelsen (1966), restituisce l’idea di un diritto espresso in una forma linguistica che indirizza le volontà degli uomini, e resta dunque profondamente attuale. La tecnica normativa, sostiene Irti, ha però assistito alla cesura del rapporto del diritto con i luoghi e le loro storie, per cui quello dell’economia globale è un diritto senza patria: «economia e finanza rompono la misura della territorialità, che a sua volta è misura della politica, e si svolgono nel non luogo della rete telematica» (75). Ne deriva che, nella situazione tratteggiata, un diritto senza patria è destinato a raggiungere un grado ancora più alto, se non addirittura il grado massimo, di artificialità. In questo frangente, solo lo Stato permane come ultima istanza di territorialità del diritto, in quanto unico detentore del potere coercitivo.

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Ma ritorniamo alla parola giuridica. Seguendo Irti, essa va intesa nel senso ordinario. Il suo «valore di scambio» sarà dunque primariamente il senso letterale (81). Benché il saggio sia caratterizzato da un forte afflato positivistico, Irti avalla la posizione dei linguisti istituzionalisti: come Saussure (1966) riconosce nella tradizione linguistica giuridica una sistematicità latente; d’altro canto, però, con Croce (1973), non arriva a considerare il linguaggio giuridico come un insieme di norme imposte dall’esterno. Il formalismo assoluto è certamente assoluto positivismo, ma, si noti, non vuole essere conservatore, bensì «aperto a ogni decisione dell’umana volontà» (37): il linguaggio giuridico è quindi considerato come un insieme di dati linguistici oggettivi, in cui gli utenti si riconoscono proprio in forza di questa oggettività. Il formalismo assoluto, viene poi ulteriormente specificato (38), non è considerato una totalità ingabbiante, ma, rimanendo se stesso, si moltiplica nell’onni-centrismo delle scelte individuali. Eppure, nelle situazioni in cui il singolo individuo non si trovi d’accordo con il principio costitutivo (Grundnorm) di un diritto, ovvero con il principio che ne garantisce l’unità così come formulato e dispiegato, il dissenso più netto e radicale si manifesta con l’azione di «andarsene», di scegliere un altro schema di norme e fattispecie (lungi dall’essere considerate «verità», le fattispecie altro non sono che un’«immagine dell’evento», species facti1), e inserirsi dunque in un altro «gioco linguistico», direbbe Wittgenstein (1967).

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Vista l’importanza dell’affidamento semantico nell’assetto irtiano, ci si può chiedere, a questo punto, come l’autore tratti alcune questioni giuridiche di prim’ordine. Sopra a tutte, l’interpretazione, che attraverso un limpido percorso ragionativo il giurista concepisce come un «conflitto», in cui alla fine una volontà interpretante «avrà vittoria, l’altra soccomberà» (69). Da notare è qui ancora una volta la presa di distanza dalla possibilità di stabilire la verità della natura attraverso il diritto: la voce della natura si scompone nell’indefinita molteplicità degli ascolti e delle domande poste, e «non c’è giudice che possa dirimere il loro conflitto» (70). In quest’ottica, dunque, l’appello al diritto naturale serve semmai a conservare o sovvertire il diritto vigente e altro non è che un ulteriore modus interpretandi. La rilevanza assunta dal senso letterale nel processo interpretativo nel libro si pone in contrasto con le teorie di Gadamer (1983) relative alla precomprensione e ai pregiudizi legati alla tradizione, e con quelle di Betti (1971) sul testo linguistico come deposito ellittico di criteri valutativi che eccedono la parola. Entra invece in sintonia con la teoria di Ricoeur (2020) riguardante gli strati di senso, che il senso letterale «inchiude», come già recitava l’espressione del convivio dantesco (2014, II, I)2, ripresa dall’autore (103).

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Un’ulteriore questione è l’indeterminatezza della parola, parola che deve essere per Irti «conformativa» (o «morfogenetica») e precisa, e opporsi alla nebbiosità dei valori3, pena il disordine di un «in-forme» violento e antidemocratico. Rifacendosi alla nozione di legalità linguistica, con Devoto (1962) Irti rileva per esempio che nella lingua del diritto è raccomandabile e necessaria una certa stabilità grammaticale e semantica, al fine di non dare adito ad arditezze interpretative. Queste ultime romperebbero «il circolo democratico dei significati deludendo le attese semantiche dei destinatari e sconvolgendo la razionalità delle scelte compiute», deviando così dal percorso democratico espresso nella legge tramite la sovranità popolare (127). Su questa scia, il libro dà importanza al concetto di sussunzione rilevando che essa è un processo necessario all’applicazione della norma: solo attraverso la sussunzione è possibile impugnare e controllare il sillogismo giuridico, interponendo una distanza logica tra fatto e schema normativo e quindi eliminando la possibilità di una risposta giuridica intuitiva e immediata all’appello della vita. E poiché in Irti la parola giuridica è anche uno strumento di conoscenza, la sussunzione assume importanza anche in quanto metodo conoscitivo consapevole – nel senso di Jaspers (2014) –, che allontana l’atto arbitrario, è suscettibile di spiegazione ed è in grado di segnare i propri limiti.

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La necessità logica della fattispecie viene ribadita anche nel primo capitolo in appendice al volume. In queste pagine conclusive, che espongono il pensiero di Leibniz, viene precisato che tale necessità si manifesta anche laddove la norma non ha contenuto descrittivo, ma enuncia un mero criterio di decisione (p. es. un dovere generale di buona fede) (239). Funge qui da caposaldo teorico il «Giudizio» come delineato in Kant (2005, 133), ovvero «la facoltà di sussumere sotto le regole», e «di distinguere se qualcosa stia o no sotto una data regola (casus datae legis)». Affinché si realizzi la sussunzione, il concetto deve però contenere già ciò che è rappresentato nell’oggetto da sussumere sotto di esso, e il giudice dovrà operarne il collegamento tramite il proprio schema mentale di immagini o figure corrispondenti (facti species, appunto).

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E tuttavia la questione rimane: l’indeterminatezza è insita nella lingua, dunque anche nella lingua del diritto. È uno degli architravi teorici del pensiero di De Mauro (Gensini 2018). Fino a che punto, per esempio, è possibile definire un concetto come quello di bona fides? Per quanto la parola venga discussa e soppesata, e considerata come forma da cui sussumere altre fattispecie, resta il fatto che non possiamo prevedere quale senso prenderà nel tempo. Lo schematismo è un mondo ideale che nella realtà tende inevitabilmente a farsi labile. Rimane, nel linguaggio, un elemento di caoticità, che nel volume resta sullo sfondo. In compenso, vi è teorizzata la chiusura della forma, una chiusura rassicurante perché la forma nomina l’ignoto e così lo circoscrive, lo limita, lo rende noto, ma si lasciano in sospeso argomenti come la non esaustività della legge, il silenzio normativo, il diritto non cogente (o mite), quello non scritto, quello consuetudinario, il nudge4, pur sempre mezzi di coercizione di una volontà, di un orientamento, che esistono malgrado manchino i cartelli espliciti, le parole, che ne mostrano la direzione. Come rileva Cananzi (2015, 78), «[i]l diritto sfugge ad una ottica definitoria man mano che se ne percepisce la extrastatualità», e così «viene liberato in quel suo farsi costante nell’esperienza». Di contro alla chiusura forte ipotizzata da Irti, è dunque possibile intendere la forma anche come «formatività», come forma in divenire, nel senso di Pareyson (2002).

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Considerate le posizioni dell’autore, è del tutto apprezzabile, nell’assetto del libro, la scelta di dedicare uno dei capitoli finali al giurista fiorentino Emilio Betti. Nel pensiero bettiano, Irti, convinto fautore del positivismo kelseniano, individua certamente alcune antinomie e contraddizioni, ma anche un «lascito alto e fecondo», che non ci «chiude nella sterile gabbia di un sistema, ma si fa promotore di diversità e incitatore di nuovo pensiero» (233). L’esposizione della visione linguistica dell’ermeneutica bettiana giova così all’intera materia, che acquisisce una complessiva apertura. Concetti come quello di «presupposto», ossia un livello fondamentale su cui si basa il riconoscimento del dato linguistico e che con esso inevitabilmente interagisce, oppure anche la scissione tra forma linguistica e contenuto d’ordine superiore (in cui risuona l’idea di arbitrarietà del segno linguistico, di matrice saussuriana) sono infatti quasi del tutto inesplorati nella teorizzazione di Irti esposta nel saggio.

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La forma, considerata dallo sguardo retrospettivo di Irti uno scudo nei confronti di volontà vincitrici pericolose, fa sì che il fatto goda della sua forza e patisca della sua pena. «È forza l’uscire dal caos informe degli eventi, prendere nome, ritrovarsi e riconoscersi in una figura generale e tipica; è pena la fissazione schematica e definitoria che sopprime o trascura particolarità, soffoca sfumature, e tutto rende producibile e calcolabile. La pena è il costo necessario di quella forza». Ma è oggi quanto mai evidente che il ragionamento andrebbe saggiato in funzione di nuove esigenze trasversali, che si collocano oltre i confini dello Stato, in cui i fatti non sono immediatamente richiudibili in forme familiari, per la semplice ragione che essi stessi non ci sono familiari e riconoscibili. L’affidamento semantico, allora, dovrà necessariamente crearsi attraverso nuovi strumenti e percorsi.


Daria Evangelista, Dottoranda in linguistica italiana, Università di Basilea, e-mail: daria.evangelista@unibas.ch.


Bibliografia ^

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  1. 1 Del resto, come rilevava Arendt (2019: 35) in relazione alla vita politica, «ogni verità necessariamente mette fine alla pura attività del pensiero».
  2. 2 Il passaggio del Convivio tratta dei vari livelli di significato di un testo, di cui il primo deve sempre essere quello letterale: «sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico» (Alighieri 2014, II, I).
  3. 3 L’autore rileva in particolare le differenze tra la sua concezione e quelle di Emilio Betti, che ricava dalla realtà l’agire giuridico dell’uomo, e di Luigi Mengoni, che concepisce i valori come fermi e immutabili in una sfera meta positiva. La critica di Irti agli indirizzi meta positivi, meta normativi o assiologici che siano è di principio: se ci si chiede chi dovrebbe leggere e interpretare ciò che sta dietro o sopra la norma non si saprebbe rispondere, perché questi orientamenti sono espressioni di fede, credenze o intuizioni e come tali, a ben vedere, soggettivi, indiscutibili e inconfutabili. I valori, secondo Irti, devono poi distinguersi dai «principi generali», i quali sono ricavati per induzione dalle norme positive, e quindi sono anch’essi positivi.
  4. 4 Per cui si veda per esempio Flückiger (2019).